La legge numero 109 del 1996 regola la confisca dei beni di proprietà degli esponenti mafiosi e la loro riassegnazione. Grazie ad essa, case, terreni, aziende, oggetti un tempo di proprietà della criminalità organizzata possono diventare patrimonio della collettività. A gestirli nella loro nuova vita sono gli enti pubblici o, spesso, organizzazioni del terzo settore che li ottengono in comodato d’uso.

È un’idea nata da Libera, l’associazione antimafia fondata da Don Luigi Ciotti. Nel tempo riuscì anche a migliorarla, come quando nel 2010 il governo – su proposta degli attivisti – istituì un’agenzia dedicata alla gestione di questi beni, l’ANBSC (Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati).

Di cosa si parla

Il sequestro di un bene parte solo laddove il proprietario, indiziato per associazione mafiosa, non ne dimostri l’origine lecita. Con la condanna in secondo grado il bene viene confiscato e trasferito all’agenzia preposta, l’ANSBC. Solo a seguito della condanna definitiva è assegnato allo Stato nelle sue diverse articolazioni (dai ministeri alle forze dell’ordine) o agli enti locali, che a loro volte possono farlo gestire ad una realtà del terzo settore.

I beni di cui parla il rapporto ministeriale possono trovarsi a uno stadio diverso di questo lungo iter. Il 39% dei 230.517 beni censiti dal ministero è stato alla fine dissequestrato, e il 15,3% è ancora in fase preliminare. È su questi numeri che si concentrano le critichedi parte del mondo antimafia. Tanti, troppi beni confiscati rimangono inutilizzati o, peggio, occupati abusivamente dai vecchi proprietari.

Poca trasparenza

Su 45mila beni circa che risultano essere destinati o in gestione, meno di 2.500 esperienze sociali sono attive e per arrivare a nuove assegnazioni bisogna aspettare anche 10 anni. La trasparenza è in teoria un pilastro della legislazione antimafia. I cittadini hanno diritto di sapere nel dettaglio cosa lo Stato abbia strappato alla criminalità organizzata. Ma anche qui lo iatotra teoria e pratica si fa sentire. Il rapporto «RimanDati», curato annualmente da Libera, rileva come il 60% dei Comuni non abbia pubblicato l’elenco dei beni confiscati in suo possesso. Nonostante la legge glielo imponga. Le cose non migliorano con la ANSBC, il 30% dei beni destinati è irreperibile, cioè non è indicato un indirizzo esatto; e i beni non ancora destinati sono del tutto anonimi, senza informazioni.

Un modello problematico

L’importanza di colpire al portafoglio la criminalità organizzata è soprattutto nell’aiutare gli enti locali e le associazioni che vogliono intraprendere un percorso di rinascita da luoghi mal sfruttati. Un bell’esempio è quello della GeoTrans di Catania. Un’azienda di trasporti in mano alle cosche risollevata da una cooperativa formata dai lavoratori stessi che oggi opera nella legalità.

Tuttavia, per garantire un successo duraturo, è fondamentale che la società, le istituzioni e le comunità locali collaborino in modo sinergico per garantire che questi beni siano utilizzati in modo trasparente ed efficace per il bene comune. Solo attraverso una cooperazione continua e una vigilanza costante possiamo sperare di sconfiggere le mafie e costruire un futuro più giusto e sicuro per tutti.

Dunque, i beni confiscati alle mafie rappresentano una vittoria tangibile nella lotta contro il crimine organizzato. Questi sequestri non solo privano le organizzazioni criminali dei loro mezzi finanziari, ma offrono anche un’opportunità unica di reinvestire quei beni nella comunità, contribuendo così a riparare i danni causati dalla criminalità.

 

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